Giornata della Memoria, quando la resilienza è più forte della sofferenza. L’analisi dello Psicologo Elpidio Cecere
Il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria. Il nostro pensiero oggi va a milioni di esseri umani che hanno dimostrato di avere inaspettate ed enormi capacità resilienti che, in alcuni casi li hanno portati a sopravvivere all’Olocausto, esperienza caratterizzata dal punto di vista psicologico da una costante paura di morte e di sofferenza.
Ma come possono, gli esseri umani, diventare così malvagi fino al punto di massacrare dei loro simili senza provare rimorso o essere coscienti dei loro atti?
Dal punto di vista psicologico, un fattore coinvolto è il “pensiero di gruppo”, una combinazione di orgoglio comune e di conformismo che può spingere a decisioni tanto immorali quanto tragiche: la presenza di un gran numero di persone che condividono una missione, e dove il singolo individuo scompare, facilita l’influenza a comportamenti impensabili.
Un altro fattore fondamentale è legato ai processi de “l’assimilazione e del contrasto” che consiste nel minimizzare le differenze all’interno dei gruppi a cui si appartiene ed estremizzare quelle dei gruppi considerati “diversi”: tutto ciò rende più semplice vedere “gli altri” come cattivi e peggiori di “tutti noi”, percependo l’idea che gli altri meritano le sofferenze che vengono loro inflitte.
Molti teorici della personalità hanno scoperto diversi meccanismi di difesa come “la scissione”, cioè la capacità di creare barriere cognitive ed emozionali in grado di dividere ciascuna parte di noi dall’altra: questo meccanismo è usato rispetto all’olocausto per spiegare come le persone la cui mansione era l’omicidio di massa, potessero tornare a casa dopo il “lavoro” e godersi una normale serata in famiglia.
Le indescrivibili esperienze dei sopravvissuti che non possono essere umanamente comprese, né spiegate in modo adeguato.
Lo psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim, deportato nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, nella sua opera “Sopravvivere” descrive la psicologia dei prigionieri dei campi di sterminio, sottoposti ai trattamenti più crudeli come trovarsi costantemente di fronte alla propria morte e a quella dei compagni, il fumo dei forni crematori, analizzando la disintegrazione e lo squilibrio psichico che derivavano da quell’esperienza.
Viene analizzata, inoltre, la sindrome del sopravvissuto al campo di concentramento: essa include sintomi come il senso di colpa per essere sopravvissuti, rabbia e ansia, disturbi del sonno, flashback, ipervigilanza, depressione e incapacità a stabilire legami profondi e che vede emergere l’impossibilità di reintegrare la propria personalità.
Altre testimonianze di sopravvissuti ai campi di sterminio sono anche un messaggio di speranza e di incoraggiamento a non arrendersi mai. Liliana Segre, ebrea di origini milanesi deportata ad Auschwitz, nelle sue dichiarazioni confessa una personale “psicopatologia da campo di concentramento”. Parlando della “marcia della morte” verso la Germania nel gelo dell’inverno polacco alla vigilia della liberazione, in cui i prigionieri stremati che cadevano a terra venivano fucilati sul posto, Segre riferisce di come continuasse a ripetersi “voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere” e, dato che il compito di dover camminare le appariva impensabile in quelle condizioni, avesse mentalmente ridotto il pensiero della marcia al “mettere una gamba davanti all’altra”, per non cadere e morire.
La ricorrenza della Giornata della Memoria è un’esortazione a cercare dentro di sé la forza anche nelle situazioni più atroci e drammatiche, di trovare soluzioni per ritornare alla vita. La capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, riporta al concetto psicologico di resilienza.
Cos’è la resilienza in psicologia?
“Ciò che non lo uccide lo rende più forte” citava Friedrich Nietzsche.
L’American Psychological Association (2014) definisce la resilienza come il processo di adattamento di fronte ad avversità, traumi, tragedie, minacce ed eventi stressanti. Praticamente dunque, è l’abilità che ci permette di piegarci, ma non di spezzarci di fronte alle avversità cui la vita ci sottopone.
Cosa rende una persona più resiliente rispetto ad altri?
I fattori che determinano in un soggetto l’attuazione di strategie resilienti comprendono sia quelli biologici che psicologici, sociali e culturali i quali si fondono tra loro nel determinare la risposta di fronte agli stressors. Non è detto che la resilienza si estenda a tutti i dominii della vita; ad esempio, una persona può esserlo nell’ambito lavorativo, ma non in quello relazionale. Soprattutto la resilienza muta nel tempo in funzione dello sviluppo e dell’interazione con l’ambiente, quindi si forgia anche attraverso l’esperienza.
L’invito, in questa giornata, è quello di accettare la persona in tutte le sue poliedriche sfaccettature, che siano di razza, di pensiero, di religione, o fisiche e mentali come per altro sancito anche dall’articolo 4 del Codice Deontologico degli Psicologi italiani. La diversità è ricchezza per ognuno di noi, non motivo di divisione e contrasto. Oggi che l’Olocausto è solo un ricordo, anche se purtroppo ancora vivo, il pensiero va anche alle vittime di violenze e sopraffazioni.
A cura di: dott.ssa Anna Rosaria Martullo; Kymberly Loffredo; Sara Mataluna; con la supervisione dello Psicologo Dott. Elpidio Cecere.